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FABULA RASA /46 L'uva nera di Livia

Chi mi legge ormai è come se mi conoscesse: sa che amo fare tuffi nel passato. E, per fortuna, la letteratura allacciandosi alla mia vita me lo permette. In un tema in classe al ginnasio, intitolato In una mia biblioteca ci metterei questi libri -  lo giuro, conservo ancora la brutta copia - fra i vari Leopardi, Montale, Moravia e Cassola, figura Livia De Stefani (1913-1991) con La vigna di uve nere. (Merito di una mia cugina, assai più grande di me, che alimentava opportunamente e con testi fuori dall’ortodossia la mia sete di cultura letteraria.) Scrivevo, a proposito, che ignoravo chi fosse la sua autrice, che la storia fosse ambientata al sud, in una Sicilia con le sue tradizioni e i suoi pregiudizi, e concludevo con amarezza: sembra impossibile che possano accadere le cose raccontate in questo libro, ma è così.

Dopo quarant’anni e più, lo rileggo. Mi ronzava in testa il titolo e il nome della scrittrice. Non ne ho più sentito parlare, ma le tracce della memoria a lungo termine… si sa, quelle non danno scampo. Trovo anche lo sceneggiato Rai e, nonostante la pessima qualità dell’audio, lo guardo. Fedele in linea di massima al testo, pubblicato nel 1953 (col quale l’autrice vince il premio Salento), è andato in onda nel 1984.

Cosa ci si aspetta, in genere, da una bella donna che scrive negli anni Cinquanta? Che scriva d’amore ma romantico, o al massimo di galateo e cucina. E invece no! La nostra eroina scrive nientemeno che di mafia - lei che è proprietaria del feudo Virzì, lei che con la mafia si è scontrata davvero: le ha perfino sequestrato il fratello - anche se la mafia fa solo da sfondo alla trama. E la protagonista, pensate un po', è una ex prostituta (nello sceneggiato una sensuale Lea Massari dalle carni bianche e morbide come Concetta), il che, di conseguenza, ci introduce nell’antica condizione femminile che tanto antica poi non è. […] Ma le femmine, che valore hanno le femmine? Porteranno un altro nome, diventeranno sangue degli estranei. […] da quando egli s’era messo a vivere con lei, non era più uscita di casa: ché se non ci fosse stata donna Fania ad assicurare che era viva e anzi s’era fatta più grassa, c’era da credere che fosse morta. Sul rapporto uomo/donna: […] “il maschio, da che mondo è mondo, nella colpa della carne ha meno colpa della donna.  Il maschio non ha grembo, il marciume non alligna in lui. Nella polpa del frutto, che è femmina, là alligna il marciume”.  E, ancora, sul rapporto padre/figli: Padre si diceva, era suo padre. Un padrone da servire e per incerto guadagno. Ma addirittura scrivere di incesto, di suicidio forzato! Nicola e Rosaria, i figli abbandonati e poi ripresi in casa dal mafioso Casimiro Badalamenti, si ritroveranno, adolescenti, fratello e sorella, e si innamoreranno. Per colpa di un destino che partorisce l’orrore del sud. E così fu per la loro disgrazia, che era già scritta nel libro del destino.

Tutto diventa nero come il sugo dell’uva della vigna, perfino il sangue che diventa sanguinaccio sulle unghie smaltate delle turiste straniere in visita a Cinisi, secondo i commenti dei maschi siciliani seduti al bar in piazza.

Una società patriarcale, anzi di più, descritta con tono disinvolto e densità di linguaggio (Eugenio Montale): un mondo quotidiano ma magico nella sua natura (Carlo Levi), in cui l’inventario neorealista è solo uno specchietto per le allodole (Salvatore Ferlita).

Sposatasi con lo scultore Renato Signorini a diciassette anni l’autrice si trasferisce a Roma, e abbandonata la vena poetica comincia a scrivere racconti, poi romanzi. Come dirà Vittorini a proposito della vigna, la De Stefani scrive modernamente ma di un mondo antiquato. Sfornerà altri romanzi ma chiuderà la sua carriera con una raccolta di poesie, così come aveva cominciato.

Il romanzo è ristampato per Isbn, 2010, in “Novecento italiano” che “è una collana che si propone di rileggere alla luce dell’oggi opere della letteratura del secolo scorso che, per le più disparate ragioni” (???), “sono state dimenticate dagli editori e dagli studiosi e che perciò restano sconosciute o poco note alle ultime generazioni di lettori” (Guido Davico Bonino).

Io lo lessi nel 1975. Non c’è bisogno di aggiungere altro. Vero?

ennebi

 

 

 

 

 

 

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