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ANCHE PER LUI /1 Chi resta, chi parte. Chi torna?

I versi di Rainer Maria Rilke  introducono in esergo La restanza, Einaudi, di Vito Teti, il poeta dell’antropologia universale: Poiché non v’è luogo al restare (Elegie duinesi).  Rilke traccia il mondo degli uomini che non è vita né morte, ma, come insegna Eraclito, è il logos della terra che muta. In questo solco  Vito Teti semina e raccoglie: amore e odio verso i luoghi dell’anima; ricerca del vero senso dell’essere; il tutto nella sospensione di un tempo irrisolto - il nostro.

Dalla sua casa natale a San Nicola di Crissa, sperduto ma non perso tra le Serre del Vibonese, Vito Teti ha iniziato il suo, di viaggio -  per fortuna ancora in corso - nei sentimenti profondi di chi è partito, di chi è rimasto, di chi galleggia nei processi della mente, di chi si immerge nuovamente nell’acqua del fiume dell’esistenza. Nella coincidenza degli opposti, dell’arco e della lira, della via in su e della via in giù, del giorno e della notte: la metastoria dell’io che parte restando e che resta partendo.

Si ode la voce rivoluzionaria quanto antica di un sapiens nella sua erranza sulle strade di questo universo mondo che diventa attesa, che si fa attenzione, che si ammala di nostalgia. La vita è sempre altrove… la nostalgia è sentimento dell’altro e dell’altrove, del presente, del futuro. Vito Teti è capace di costruire una dialettica/metafisica dei luoghi, che noi costitutivamente siamo, e che saremo fino alla morte e oltre, nella quale lui ci conduce, e noi siamo dentro e siamo fuori, condotti per mano dal suo  Genius loci/daimon  che ci svela la semplice ricetta, mai scontata, della fedeltà al luogo: della fedeltà a se stessi. Ci fa assaggiare il pane della restanza, Vito Teti, e ora tocca a noi, a ognuno di noi, una buona volta, imparare a impastarlo, per ridare nuovamente senso al nostro essere nel mondo. Per riempire i vuoti, con nuove pietre sulle vecchie, per ripopolare i paesi.

La restanza è multiforme come l’ingegno di Odisseo, ha mille volti e mille voci, e, scelta o subìta, si trasforma nella consapevolezza dei luoghi che mutano, perché sono i rapporti umani ad essere mutati, quindi gli esseri che li abitano.  Rimanere prigionieri dei romantici confini campanilistici ci impedirà di rianimarli, i nostri paesi: per liberarcene sono necessarie buone dosi sì di concretezza, ma anche di utopia.

L’eternità che respiriamo con Vito Teti dal balcone di casa sua è la casa-proiezione dell’io, punto di partenza e di arrivo dell’esistenza; il luogo natio-baricentro di cui tutti sentono il bisogno di riappropriarsi, sia chi è partito sia chi è restato. E così la nostalgia non è malattia ma conditio sine qua non per viaggiare. Anche senza meta, anche senza ritorno. Il viaggio è nell’interiorità dei mari estremi. Siamo tutti altrove. Siamo tutti esuli. Questo significa essere liberi. Giani bifronti perennemente in conflitto: è questo l’antidoto: non considerare l’andare e il restare assoluti opposti escludentisi. L’uno non ha vita senza l’altro.

Solo così si può narrare - quello che fa Vito Teti - dell’alterità che è dentro di noi, attraversando una panoramica di voci antiche e moderne che spaziano dal cinema alla filosofia, alla poesia, alla prosa,  che non si allontanano però dall’unica prospettiva possibile: l’esilio.

Lo sguardo dell’antropologo che studia, sorveglia e mai giudica: rigore, umanità, inquietudine si riversano in queste pagine intense e mai compiute. Camminando nella scrittura di Vito Teti si dischiude il cuore nascosto, che batte e ribatte, di un tema del quale s’è detto, ma c’è ancora da dire, da riflettere, da studiare. Si entra nella magia del mondo altro, del fuoco che alimenta il motore dell’universo e che si accende, si spegne, per ardere e illuminare - antichi pagliari dell’infanzia - le nuove visioni del reale. E camminando cerchiamo noi stessi, forse, anzi di sicuro, senza mai trovarci veramente.

Cosa resterà di tutti gli anni della nostra vita, dei nostri amori e dei nostri dolori. Cosa resterà dei luoghi abbandonati e di quelli pieni di uomini operosi, della polvere e delle pietre, del nostro infinito viaggiare? Cosa resta di noi? Sulle rovine della memoria resterà il senso dell’infinito viaggiare, del cercare senza trovare. Resterà la fuga, il tormento interiore, ma soprattutto la cura e l’amore per creare una patria comune nel cuore del mondo, da lasciare in eredità.

Nella V Elegia, Rilke si chiede: Chi sono, dunque, dimmi, i girovaghi, questi ancor più fugaci di noi, che fin dall’inizio urgendo li torce – per chi, per amore di chi – un mai placato volere?

Sono quelli senza ricetto, come Vito Teti, che si pongono sempre la domanda: Lontano da dove? Lontano da chi?

ennebi

 

 

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Commenti: 2
  • #1

    Luigi Petrone (giovedì, 15 settembre 2022 21:55)

    Esiste un altro universo, quello che ognuno racchiude dentro di se.
    "La restanza" di Vito Teti aiuta a riflettere. E a comprendere meglio se stessi.

  • #2

    Nuccia Benvenuto (venerdì, 16 settembre 2022 13:30)

    Grazie per la tua riflessione.