· 

FABULA RASA /79 La valigia di Irène

Tutto può ricominciare da una valigia?

Sì, se  essa –  trascinata dalle sue due bambine in fuga dalla persecuzione nazista, nel 1942, tra conventi e cantine, verso la salvezza che non è toccata  anche ai loro genitori – racchiude l’esistenza breve, ma intensa e tragica, di Irène Nèmirovsky (1903-1942).

Cosa contiene? Soldi, titoli bancari, gioielli? Niente di tutto questo! Qualcosa di molto più prezioso, il prodotto di ciò che Irène aveva cominciato a fare a diciotto anni, vittima di due genitori assenti, una madre narcisista e un padre giocatore: i suoi scritti.

Taccuini, diari, manoscritti vari redatti con ordine maniacale: sono la grande eredità che Irène lascia alle figlie scampate all’Olocausto, materiale da cui Elisabeth Gille, la più piccola, nata nel 1937, ha ricostruito la figura della madre che non ha avuto la possibilità di allevarla.

Proprio lei, Irène, che si considera un’ebrea dissociata e non sopporta dell’ebraismo le linee religiose, identitarie – si converte al cattolicesimo – morirà nel lager di Auschwitz, il 17 agosto di quello stesso anno, appena trentanovenne.

La prima fuga, dalla rivoluzione bolscevica, riuscirà;  nel 1918, passando per Svezia e Finlandia, con i ricchi genitori arriverà in Francia dove  vivrà anni di Spensieratezza – qui apprenderà dalla governante di casa il francese, la lingua che adotterà per scrivere. Ma scappare dal governo collaborazionista di Vichy è impossibile: prima si nasconderà sotto pseudonimo, poi, arrestata e deportata, sparirà. Non rimarrà niente del corpo, ma della sua scrittura, centro stabile della sua esistenza, tutto.

Eccola Irène, costretta a bere Il vino della solitudine, romanzo in cui racconta: Guardò le persone che le stavano intorno. Loro non la vedevano, ma erano anch’esse, per lei, irreali, lontane… Lei viveva lontana da loro, in disparte, in un mondo immaginario di cui era padrona e regina. E scrisse:  Il padre pensa a una donna che ha incontrato per strada , e la madre è appena tornata da un convegno con l’amante. Non capiscono i figli e i figli non li amano. Non c’è virtù, non c’è amore nel mondo. Si fermò rigirando la matita in mano e un sorriso timido e crudele aleggiò sulle sue labbra. Scrivere quelle cose le dava conforto. A lei non interessa immaginare come l’umanità dovrebbe essere. No! Lei vuole descrivere le persone che la circondano così come sono, mostri che tornano dall’infanzia: una madre che la odia come una rivale in amore per i suoi gigolò e un padre che accumula capitali e passa le serate al casinò, e che non possono essere rimossi né perdonati. Parola d’ordine: vendetta. Dove c’è vendetta, non può esserci riscatto, tuttavia.

E se siamo condannati a percorrere fino in fondo la strada del destino inscritto nel nostro codice genetico, allora per Irène Némirosky - figlia, ebrea, donna - non c’è scampo. A una che vuole essere libera dentro e di scegliere la propria strada senza dover seguire lo sciame, non basta solo desiderarlo. Primum vivere. Giorno per giorno. Resistere, attendere, sperare. Non le è bastato. Siamo pedine sulla scacchiera di un mondo devastato dalla guerra e dalla crisi economica. Ci ridurremo  come le mosche d’autunno: Camminavano avanti e indietro  da una parte all’altra, in silenzio, come le mosche d’autunno, allorché, passati il caldo e la luce dell’estate, svolazzano a fatica, esauste e irritate, sbattendo contro i vetri e trascinando le ali senza vita.

Ma l’amore ci salva, come quello di un ufficiale tedesco che suona il piano in Suite Francese – rimasto incompiuto e scritto prima dell’arresto: Per sollevare un così grande peso / ci vorrebbe la tua forza, o Sisifo. / Questa fatica non mi spaventa / ma la meta è lontana e breve il tempo. Solo le prime due parti, Temporale di giugno e Dolce, sono complete. In esse, nonostante l’incombente tragedia, Irène scrive con la gioia di raccontare, sempre ispirata dai suoi maestri russi e francesi.

E già nel precedente I doni della vita, troviamo il lieto fine: Ma lei non sentiva più né pena né fatica. Le sembrava di aver fatto la sua mietitura, di avere raccolto tutta la ricchezza, tutto l’amore, il riso e le lacrime che Dio le aveva destinato e che ora era tutto finito, che doveva solo mangiare il pane che aveva macinato, bere il vino che aveva pigiato, che tutti i beni di questo mondo li aveva messi da parte, che tutta l’amarezza, tutta  la dolcezza della terra avevano dato il loro frutto. Avrebbero finito la vita insieme.

Purtroppo, per te, Irène, e per  la tua famiglia non è stato così.

A noi restano, come dono della vita, i tuoi libri.

 

ennebi

Scrivi commento

Commenti: 6
  • #1

    Mariolina Rocco (domenica, 26 gennaio 2025 16:37)

    Storie di donne uniche, quelle che ci regala la nostra cara Nuccia, che con grande maestria sa coniugare la sensibilità femminile alla voce della storia.

  • #2

    Grazia (domenica, 26 gennaio 2025 17:26)

    ... La storia di Irene mi permette di riflettere su una vita tanto triste, quanto autentica. Grazie Professoressa Benvenuto, per avermi permesso di afferrare per qualche istante, la valigia di Irene...

  • #3

    Mariagrazia (domenica, 26 gennaio 2025 17:26)

    Una grande donna! Grazie Nuccia

  • #4

    Antonella Barone (domenica, 26 gennaio 2025 17:37)

    Una riflessione sulla grande Storia, e su alcune delle tante tragedie sociali. È però anche un profondo momento di introspezione personale tutta al femminile che dando voce all'intimo delle proprie vicende le fa diventare potentemente universali.
    Nuccia, grazie sempre.

  • #5

    nucciabenvenuto@alice.it (lunedì, 27 gennaio 2025 14:15)

    Grazie more a voi, mie care lettrici!

  • #6

    Anna Franco (martedì, 28 gennaio 2025 21:55)

    Grazie!